Vi racconto la "mia" Turandot!

Vi racconto la

foto Priamo Tolu

Vi racconto la "mia" Turandot!
a colloquio con Pier Francesco Maestrini

Lei è considerato un innovatore nella regia dell'opera lirica: in che modo affronta questa nuova sfida cagliaritana?

Si tratta sicuramente di un allestimento poco convenzionale per la natura stessa del progetto: la scelta di affidare le scenografie a un grande scultore ispira tutta l'estetica dello spettacolo.

Lo straordinario lavoro di Sciola, che porta in scena le sue pietre musicali, ha una impronta fortemente architetturale e si coniuga perfettamente con la mia idea di Turandot. Per me si tratta di un titolo molto seducente, che ho affrontato varie volte e che continua a interessarmi e stimolarmi. Avevo già ideato una versione 'glaciale', dove la protagonista, che vive in una Cina di ghiaccio, riesce a sciogliere gradualmente il gelo della sua anima, dopo il bacio di Calaf. Qui il cuore di Turandot è di pietra, impenetrabile. La Cina stessa è pietrificata. Ma è la natura elastica della pietra di Sciola a compiere la trasformazione.

Conosceva Pinuccio Sciola?

No, non lo conoscevo e sono rimasto affascinato dalla sua opera e dalla sua personalità integrata nella sua stessa arte. Poche volte ho avuto l'occasione di ricevere un'emozione così forte da una persona che lavora con la manualità. Tra noi è nata subito una grande empatia: lui che non aveva mai affrontato una sfida di questo genere ha trovato in me un interlocutore giusto, io ho subito visto le potenzialità del suo lavoro tradotto in scenografia.

Cosa pensa di questa Turandot?

È uno spettacolo molto elaborato e di grande impatto, con parecchi cambi di scena, e questo dà la possibilità di offrire uno spettro abbastanza ampio delle sculture di Sciola senza perdere in fluidità. Turandot è un'opera di fantasia: negli allestimenti di oggi generalmente si tende a smorzare le forti radici cinesi che alimentano la visione pucciniana. Questa Turandot si colloca, dunque, pienamente nel solco delle letture moderne: anche il lavoro fatto con Marco Nateri, che pure parte da uno studio dei costumi cinesi, si sviluppa nella direzione della modernità.

In che tempo è collocato lo spettacolo? Partendo dalle città sonore di Sciola viene da pensare a Gotham City o a uno scenario futuribile alla Blade Runner...

Si passa anche attraverso queste suggestioni, ma in realtà la collocazione è fortemente atemporale, sicuramente non dei giorni d'oggi. La Cina è ora molto 'occidentale', noi ci atteniamo a un passato relativamente recente ma con proiezioni nel futuro.

Alle soglie dei cinquant'anni anni, lei ha una pratica più che ventennale del palcoscenico. Il tema dell'innovazione nell'opera lirica e del ricambio generazionale del pubblico attraversa tutta la sua carriera. Qual è la sua idea riguardo a un tema così essenziale per il futuro di questa parte del nostro patrimonio culturale?

Penso che sia importante affondare le radici nella tradizione per poi osare un superamento di questi riferimenti. Io sono fortunato ad essere 'nato' in teatro, mio padre era regista della grande tradizione lirica. Mi permetto quindi di percorrere strade nuove forte di una certa conoscenza anche musicale. Comunque, io non cerco la provocazione tout court se non c'è una giusta motivazione e soprattutto se non sono coerentemente sorretto dal libretto e dallo spartito musicale. Queste sono le mie condizioni.

Secondo lei cosa può offrire il teatro musicale alle nuove generazioni?

Io spero che cerchino le emozioni: questo è il senso dell'opera lirica. Se la storia è ben congegnata, difficilmente lo spettatore si annoia. Per me il regista è un narratore, che deve raccontare, a suo modo, una vicenda in modo coerente: credo che se si raggiunge questo obbiettivo, qualunque tipo di pubblico possa essere attratto dall'opera.

Il lavoro del regista può essere anche mettere da parte le stratificazioni che il tempo ha accumulato nella messinscena. Spesso bisogna procedere per sottrazione, liberando l'allestimento dalle incrostazioni di retorica e consuetudine, per ridargli vita e destinarlo a un pubblico che cambia. Quanto si ritrova in questa posizione?

Sì, per anni la retorica ha avuto il sopravvento. Poi c'è stato uno scardinamento di questa consuetudine, ha prevalso un atteggiamento opposto che ha fatto perdere molto pubblico. Ci si è intestarditi a cercare la novità a tutti i costi. Sono convinto che si debba rinnovare salvaguardando sempre la coerenza, tenendo presente quello che il compositore voleva ottenere.

intervista a cura di Sergio Benoni

 

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